Disastro del Vajont |
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Sabato 12 Ottobre 2013 11:48 | |||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||||
Il disastro del Vajont fu l'evento occorso la sera del 9 ottobre 1963 nel neo-bacino idroelettrico artificiale del Vajont, a causa della caduta di una colossale frana dal soprastante pendio del Monte Toc nelle acque del sottostante e omonimo bacino lacustre alpino. La conseguente tracimazione dell'acqua contenuta nell'invaso, con effetto di dilavamento delle sponde del lago, ed il superamento dell'omonima diga, provocarono l'inondazione e la distruzione degli abitati del fondovalle veneto, tra cui Longarone, e la morte di 1.910 persone. Indice
DescrizioneL'evento fu dovuto all'innalzamento delle acque del lago artificiale oltre quota 700 metri (slm) voluto dall'ente gestore per il collaudo dell'impianto, che combinato a una situazione di abbondanti e sfavorevoli condizioni meteo (forti precipitazioni), e sommato a forti negligenze nella gestione dei possibili pericoli dovuti al particolare assetto idrogeologico del versante del monte Toc ha riattivato una antica frana presente sul versante settentrionale del monte Toc, situato sul confine tra le province di Belluno (Veneto) e Udine (all'epoca dei fatti, ora Pordenone, Friuli-Venezia Giulia), [1] [2] . Alle ore 22.39 di quel giorno, circa 260 milioni di m³ di roccia (un volume più che doppio rispetto all'acqua contenuta nell'invaso) scivolarono, alla velocità di 30 m/s (108 km/h), nel bacino artificiale sottostante (che conteneva circa 115 milioni di m³ d'acqua al momento del disastro) creato dalla diga del Vajont, provocando un'onda di piena tricuspide che superò di 200 m in altezza il coronamento della diga e che, in parte risalì il versante opposto distruggendo tutti gli abitati lungo le sponde del lago nel comune di Erto e Casso, in parte (circa 25-30 milioni di m³) scavalcò il manufatto (che rimase sostanzialmente intatto seppur privato della parte sommitale) riversandosi nella valle del Piave, distruggendo quasi completamente il paese di Longarone e i suoi limitrofi[3]. Vi furono 1917[4] vittime di cui[5] 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso e 200 originarie di altri comuni[6]. Lungo le sponde del lago del Vajont, vennero distrutti i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa dell'abitato di Erto[7]. Nella valle del Piave, vennero rasi al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Maè, Villanova, Rivalta. Profondamente danneggiati gli abitati di Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna. Danni anche nei comuni di Soverzene, Ponte nelle Alpi e nella città di Belluno dove venne distrutta la borgata di Caorera, e allagata quella di Borgo Piave. Nel febbraio 2008, durante l'Anno internazionale del pianeta Terra (International Year of Planet Earth) dichiarato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per il 2008, in una sessione dedicata all'importanza della corretta comprensione delle Scienze della Terra, il disastro del Vajont fu citato, assieme ad altri quattro eventi, come un caso esemplare di "disastro evitabile" causato dal «fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere la natura del problema che stavano cercando di affrontare»[8]. Prodromi del progettoLa strutturale carenza italiana di materie prime come il carbone per il proprio fabbisogno energetico aveva portato il paese a diversificare le proprie fonti di approvvigionamento specializzandosi in una politica energetica di 'energie rinnovabili' ante litteram che portò allo sfruttamento di valli e corsi d'acqua montani dove vennero realizzate numerose centrali idroelettriche che avrebbero prodotto la maggior parte dell'energia elettrica prodotta in Italia del Nord, fondamentale per lo sviluppo industriale del paese. Questa politica, pur non considerando appieno le interazioni uomo-ambiente e le necessità di rispetto dell'ambiente, risultava essere una soluzione quasi obbligata. L'idea di sfruttare come bacino idroelettrico la valle del fiume Vajont tramite una diga venne concretizzata dalla Società Idroelettrica Veneta poi assorbita dalla SADE (Società Adriatica di Elettricità), particolarmente attiva alla fine del XIX e nella prima metà del XX secolo nella distribuzione elettrica nel nord-est italiano[9] (prima della nazionalizzazione del settore elettrico dell'intera Italia attuata attraverso la nascita di un "Ente Nazionale per l'Energia Elettrica", l'ENEL). In questo contesto la prima ipotesi di un progetto di massima per lo sfruttamento delle acque del torrente Vajont venne redatta da Carlo Semenza nel 1926. La diga era prevista alla stretta del ponte di Casso (un tempo esistente ad est dell'attuale zona artigianale ai piedi del bivio per Casso) e prevedeva una centrale a Dogna. La scelta era figlia di una raccomandazione del Prof. Hug che aveva sconsigliato l'alternativa più a valle all'altezza del ponte del Colomber (dove il manufatto venne in seguito effettivamente costruito). Nel 1929 venne presentata la domanda di concessione per la realizzazione di un progetto di diga al ponte di Casso (massimo invaso a quota 656 m.s.l.m.) con allegata la relazione di Hug del 1926. Gli studi geologici sulla valle interessata dal nuovo invaso proseguirono e nel 1930 Giorgio Dal Piaz presentò una relazione inerente all'assenza di franamenti importanti lungo le sponde del bacino tra la zona di Pineda (a est) e il ponte di Casso (a ovest). Nel 1937 venne presentato un nuovo progetto con spostamento della diga più a ovest presso il ponte del Colomber all'altezza del punto in cui la strada che da Longarone saliva ad Erto valicava la forra sul torrente Vajont passando dalla sponda sinistra a quella destra della valle. Il massimo invaso era previsto a quota 660 m.s.l.m.; ad esso era allegata una relazione geologica a firma Dal Piaz sostanzialmente combaciante con quella del 1930, che estendeva la validità delle sue affermazioni fino alla nuova posizione della diga. Va sottolineato tuttavia che in una sua precedente relazione del 1928 Dal Piaz si era sempre opposto alla sbarramento della valle presso il ponte di Casso in quanto egli riteneva la roccia di imposta della diga in quel punto poco adatta per cui il manufatto non avrebbe potuto essere più alto di cinquanta metri dalla base del torrente. Il progetto del "Grande Vajont"![]() La diga, nonostante le sollecitazioni quasi 10 volte superiori a quelle previste dal progetto, resistette all'ondata, che distrusse solo parte della mensola di calcestruzzo armato "cucita" alla diga su cui poggiava la strada di collegamento con la riva sinistra del Vajont
![]() L'idea di mutare in parte il progetto originario formulando l'ipotesi di un unico impianto integrato con gli altri delle valli circostanti viene attribuita a Carlo Semenza che la formulò la prima volta nel 1939. Il progetto viene normalmente identificato con il nome di "Grande Vajont". Lo scopo del progetto era quello di creare in mezzo ai monti dolomitici una riserva di acqua (serbatoio di regolazione pluristagionale) che permettesse di sfruttare l'energia gravitazionale (perché le dighe consentono di utilizzare l'acqua come fluido di lavoro), sotto forma di potenza idrica, per portare energia elettrica a Venezia e a tutto il Triveneto, anche nei periodi di secca dei fiumi. L'invaso venne creato per accumulare le acque del fiume Piave dopo il loro passaggio nella diga di Pieve di Cadore, dalla quale giungeva nel serbatoio del Vajont tramite tubazioni con dislivello minimo e quindi minor perdita di energia gravitazionale. A questo sistema si aggiungevano, tramite condotte e ponti-tubo, anche i laghi di Vodo e Valle di Cadore (sul torrente Boite), di Pontesei (sul torrente Maè) e della Val Gallina (bacino di carico della centrale di Soverzene). Era stato dunque concepito un grande sistema di vasi comunicanti, con piccoli dislivelli tra di loro, sfruttati da piccole centrali (Pontesei, Colomber per il Vajont e Gardona) e tutti confluenti nella centrale principale di Soverzene (220 MW, al suo tempo la più grande d'Europa). La profonda gola del torrente Vajont, che nasce dalle Prealpi carniche e si immette nel fiume Piave, costeggiando il Monte Toc, tra la provincia di Belluno e la provincia di Pordenone, istituita successivamente (1968), sembrava essere il luogo più adatto alla costruzione della diga a doppio arco che infine risultò essere la più alta del mondo. La domanda per una diga nella valle del Vajont alta fino a quota 667m slm e sbarramento presso il Colomber fu presentata nel 1940. Vi era allegata una relazione di Dal Piaz identica a quella del 1937. Al termine della seconda guerra mondiale, i progetti sul Vajont vennero ripresi. La concessione definitiva venne accordata con D.P.R. nr. 729 del 21 marzo 1948; il progetto iniziale prevedeva una diga a doppio arco alta 202 m con un invaso di 58,2 milioni di metri cubi. Sempre nel 1948 cominciò a svilupparsi l'idea di poter innalzare il coronamento della diga fino a 679 m.s.l.m. sfruttando appieno le caratteristiche geologiche del Calcare del Vajont che caratterizzava il punto di innesto della diga nei fianchi della valle. L'osservazione scientificaPosto che la dinamica della catastrofe è risultata concretizzarsi per un concorso di elementi naturali e di grosse responsabilità umane, è necessario fare il punto su quello che le indagini scientifiche rivelarono sulla costituzione morfologica della vallata, per poi integrare queste con lo svolgimento della cronaca recente. La geologia del luogoLa geologia del luogo venne individuata, secondo una ricerca dei primi anni sessanta, nella seguente successione stratigrafica: Giurassico:
Assetto strutturaleNell'Oligocene, durante l'orogenesi alpina, (30 milioni di anni fa), le formazioni calcareo marnose e argillose vennero piegate, fratturate e sollevate; queste, verso la base, presentano una superficie inclinata di tensione che poi è stata coinvolta nell'enorme franamento del Monte Toc. Dal punto di vista strutturale nella zona si possono riconoscere due pieghe principali entrambe con asse orientato in direzione E-W ovvero: -l'anticlinale Pelf-Frugna, il cui asse corre lungo la Val Gallina e attraversa l'alta valle del Vajont il cui nucleo è costituito da Dolomia Principale; -Sinclinale di Erto, riconoscibile nella conca di Erto, con al nucleo la formazione del flysch. Il fianco meridionale di tale sinclinale asimmetrica, lungo il cui asse si è impostata la valle del Vajont, e costituisce il fianco settentrionale del Monte Toc da cui si sarebbe staccata la frana. In termini morfologici, la valle del Vajont è di origine glaciale, che vide dopo l'ultima glaciazione l'azione erosiva glaciale sovrimpressa dalla successiva erosione torrentizia generando il profondo profilo a "V" della valle. Profilo geometricamente favorevole per la ubicazione di una diga di sbarramento. ClimaLa diga del torrente Vajont è situata in una area ad elevata piovosità con massimi in primavera ed in autunno e con minimi in inverno. L'azione del gelo-disgelo insiste sul versante meridionale della valle. Inoltre, data l'esposizione della stessa verso Est-Ovest, essa è sottoposta ad una scarsa insolazione. Nel 1962-63, il livello delle precipitazioni fu così basso che, per compensare la possibile crisi idrica e continuare con l'attività di produzione elettrica, il livello del lago artificiale fu aumentato nonostante i timori che ne derivavano. Fu, indipendentemente dalle cause contingenti, una decisione piuttosto sconcertante, se si considera che proprio per evitare i fenomeni franosi che minacciavano il bacino e i dintorni si era deciso di abbassare lentamente il livello stesso. Questo aumento in un momento così delicato potrebbe essere stato il precursore della frana, che così, pur essendo di origine “idraulica” con un invaso pieno, potrebbe aver avuto origine a causa di un periodo di siccità. Una decisione del genere è in parte spiegabile con la nazionalizzazione delle industrie idroelettriche avviata nello stesso anno del disastro . La ditta costruttrice privata SADE aveva una certa urgenza che venisse fatto il collaudo della diga di modo da poterla vendere allo Stato, che stava nazionalizzando le industrie elettriche. Lo stato di transitorietà in cui si trovava il neonato Ente per l'Energia Elettrica forse non ha permesso di verificare minuziosamente le condizioni di tutta l'opera che l'azienda privata SADE stava vendendogli. Cenni sugli studi compiuti prima del disastroI lavori di costruzione della diga cominciarono nel 1957: il versante sovrastante la diga fu subito tenuto sotto controllo. Per questo motivo il famoso specialista austriaco in esplorazioni minerarie Leopold Müller fu consultato per valutare i problemi di stabilità della roccia. Tuttavia in questo primo studio le sue indagini non rivelarono la paleofrana che poi sarebbe stata vista come causa determinante, anche se la conclusione fu che la riserva idrica poteva causare frane, anche di un milione di metri cubi. Dal Piaz, comunque, ancora l'anno dopo, nel 1958, non ritenne che fossero presenti rischi concreti di frane pericolose. Solo nel 1959 il geologo Edoardo Semenza - figlio del capo progettista Carlo Semenza - scoprì in una ricognizione sul campo la presenza, nel versante sinistro, di evidenti pericoli derivanti da una zona di miloniti non cementate, lunga circa 1,5 km[10]. Ciò indusse Edoardo Semenza ad ipotizzare la presenza di una paleofrana. Le prospezioni geofisiche del geologo prof. Pietro Caloi sembravano invece indicare nello studio successivo (novembre 1959) che la zona a sinistra della vallata fosse "eccezionalmente" solida, rocce compatte coperte da soli 10-20 metri di detriti sciolti. Nel frattempo, nel 1959 la diga era stata terminata e si era iniziato a riempire l'invaso. Tuttavia, come già visto, il 4 novembre 1960, con il livello del lago a 650 m.s.l., vi fu una frana di medie dimensioni (800.000 m³) sul versante sinistro; dopo questo evento Müller studiò ancora il territorio e propose varie ipotesi per evitare la frana del versante, benché non credesse ancora alla presenza della paleofrana. Non era contrario alla costruzione della diga, ma temeva la possibilità di una frana incontrollata, tanto da suggerire vari rimedi, il più attuabile dei quali era forse un tunnel drenante che, passando per strati calcarei compatti, raggiungesse da sotto le masse franose e ne convogliasse via l'acqua. ![]() Il campanile di Pirago, frazione di Longarone, rimasto in piedi dopo il passaggio dell'onda di morte. La chiesa ai suoi piedi venne completamente spazzata via insieme all'intera frazione.
Tra le altre possibili ipotesi di lavoro, nessuna sembrava realmente fattibile: sbancare la frana o cementarla, tra le più realistiche, erano in realtà, per le grandezze in gioco, soluzioni giudicate troppo costose e difficili da realizzare. Tuttavia, restava il fatto che la questione dovesse essere meglio compresa. Sondaggi e prospezioni continuarono ad essere previsti, sebbene scavare negli strati di detrito presentasse notevoli difficoltà tecniche. Nel 1960 Caloi riprese gli studi geosismici e, con sorpresa di tutti, rilevò fino a 150 m di roccia fratturata concludendo, in maniera ancora più sorprendente, che la frattura doveva essere accaduta dopo la sua prima indagine dell'anno precedente. Come già visto nel 1961, per volere di Carlo Semenza, un modello in scala 1:200 del bacino del Vajont fu approntato e testato presso l'Università di Padova ipotizzando l'eventualità di una frana con superfici di movimento di 30° e 40° e tempi di frana valutati fino al tempo di un minuto (già considerato eccezionalmente veloce con i dati in possesso a quell'epoca). Il totale fu considerato sufficiente per non dover temere né cedimenti della diga né svasi oltre la stessa da parte delle onde anomale generate, non più alte di una trentina di metri, corrispondenti a 40 milioni di m³ nel peggiore dei casi. Ma nella realtà la frana fu di quasi 300 milioni di m³ (circa 8 volte il valore massimo previsto) e si mosse a velocità tripla di quella prevista; tutto ciò produsse un'energia cinetica di quasi 100 volte superiore al massimo previsto, e il livello dell'onda superò i 200 m sul coronamento della diga. Nel frattempo, comunque, furono impiantati dei piezometri - seppur con grande fatica (dovuta alla necessità di raggiungere i vari strati in cui esisteva la falda acquifera), nonché dei marcatori di terreno per visualizzare i movimenti della frana. Nonostante le difficoltà nell'interpretare i dati che essi fornivano, furono molto utili nello stabilire come procedere empiricamente per far diminuire il fenomeno franoso. La strategia di Müller prevedeva che la frana in nessun caso sfuggisse al controllo, e la tattica suggerita dopo quella del 1960 fu lo svuotamento lento del bacino fino al livello di 600 m.s.l.m., da realizzare con molteplici manovre di diminuzione del livello da 4–5 m in meno, intervallate ciascuna da una pausa di alcuni giorni per dare il modo e il tempo al materiale di aggiustarsi e restare stabile nonostante il cambiamento di condizione idraulica. Così, il movimento della frana quasi si bloccò in breve tempo, e certamente non si sarebbe riattivata violentemente senza il ritorno oltre quota 700 m.s.l.m., se le esigenze di collaudo non l'avessero "imposto". ![]() L'area della frana, in basso la massa di detriti ancora oggi presenti.
Studi successiviDopo la frana, vennero intensivamente studiate le cause e i provvedimenti da adoperare per evitare ulteriori casi simili a questo. Molti i lavori di studio completati. Tra questi, quelli di Müller, Trevisan, e Hendron-Patton, il più recente, del 1985. Quest'ultimo studio ha fornito definitivamente la conferma della presenza di 2 distinti livelli acquiferi, quello superiore, che risentiva direttamente del livello del lago, e quello inferiore, dipendente dalle precipitazioni. Furono eseguiti nuovi sondaggi e si trovò che il livello detto Fonzaso con argille fosse quello che corrispondeva alla superficie di rottura della frana. Questo strato avrebbe anche causato la separazione dei due acquiferi che risultò così importante: quello nella massa della frana e quello negli strati sottostanti del calcare. Da notare che il livello dell'acquifero superiore era trovato, in base a tre piezometri installati, direttamente collegato a quello del lago. L'acquifero inferiore, invece, data la presenza nell'assetto geologico-strutturale di una sinclinale ma anche di uno strato calcareo, è da un lato isolato dal contatto diretto con l'acqua contenuta nel lago e dall'altro è invece risultato collegato alle piogge, inoltre la sua acqua permane in zona a lungo e favorisce fenomeni carsici. La variazione del livello di falda è in antitesi a quello che si riteneva precedentemente, lento e legato ai fenomeni atmosferici (piogge cadute a monte). Per questo sembrò plausibile che, effettivamente, la pressione dell'acquifero inferiore fosse capace, quando si verificavano grandi precipitazioni, di causare smottamenti e frane, anche quando non esisteva il lago artificiale. Tuttavia, la concomitanza di questi due fattori, lago e piogge, innescò questa frana colossale quando la combinazione tra intense precipitazioni e alto livello del lago si dimostrò sufficiente all'innesco. Riassumendo, le cause preparatorie o predisponenti per il disastro del Vajont sono state varie, e anche variamente interpretate, ma alcune sembrano acclarate sufficientemente:
I precedentiChe l'area, nonostante le sue qualità geometriche di ‘bacino idrico’ in termini di volume e posizionamento, fosse tutt'altro che stabile, lo dimostrano dei documenti storici risalenti addirittura a Catullo, che parla di una frana che cadde sul fondovalle, sbarrandolo. Sempre in zona, avvennero frane nel 1347, 1737, 1814, 1868. Si staccarono in particolare dal monte Antelao, provocando vittime e danni considerevoli.
La prima era correlata alla presenza di un bacino idrico, uno dei tanti del bellunese, per la produzione di elettricità. Le caratteristiche della frana sono state un'anticipazione di quella del Vajont. Alle ore 7 del 22 marzo 1959 una massa di 3 milioni di m³ si staccò dalle falde del monte Castellin e dello Spiz, su di un fronte di 500 metri e precipitò in 2-3 minuti nel lago di Pontesei, ovvero uno dei bacini artificiali. L'evento provocò la formazione di un'onda che sormontò la diga per almeno 7 metri, nonostante il bacino fosse a un livello di 13 metri al di sotto dell'orlo della diga. L'onda investì il povero Arcangelo Tiziani, sorvegliante della diga il cui corpo non fu più ritrovato. L'evento ebbe una lunghezza del fronte di frana di circa 500 metri e la sua dinamica vide il franamento superficiale di un considerevole spessore di detriti morenici. La frana del 4 novembre 1960 vide invece 800.000 m³ staccarsi dal monte Toc e cadere nel bacino artificiale provocando un'ondata di 10 metri di altezza. Seppure senza danni, questo evento era un chiaro avvertimento sulla precarietà della stabilità dei versanti, e questo con un livello della superficie del bacino che arrivava solo a quota 650 metri. Al contempo si aprì una immensa fessura perimetrale sulla montagna, disegnando una M, fessura lunga oltre 2500 metri sulle pendici settentrionali del monte Toc tra quota 930 e 1360 metri s.l.m.[11] A quel punto venne dato ordine di svaso del bacino, si intensificarono gli studi per comprendere meglio la struttura del luogo, e venne infine praticata una galleria di bypass per tenere in collegamento il bacino anche se fosse stato tagliato a metà da una grande frana, per impedire aumenti arbitrari del livello a monte della stessa. ![]() La giornalista de l'Unità Tina Merlin, che denunciò con una serie di articoli il pericolo di frana del Monte Toc
La giornalista de l'Unità Tina Merlin scrisse al proposito di questi eventi:
Già 2 anni prima della tragedia, Tina Merlin anticipò quello che sarebbe potuto succedere nella valle, con un articolo pubblicato sull'Unità il 21 febbraio 1961, in cui la giornalista denunciava la possibilità che la frana cadesse nel lago provocando enormi danni[12][13]. La stessa Merlin perorò una campagna di informazione contro la diga per tutta la durata dei lavori di costruzione, consultando gli abitanti della valle al di sotto del monte Toc. Inascoltata dalle istituzioni, la giornalista fu denunciata per "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico" tramite i suoi articoli, processata e assolta dal Tribunale di Milano. Nel 1963, Indro Montanelli e Dino Buzzati assunsero una posizione critica in merito alle reali cause della tragedia, affermando il carattere di catastrofe naturale della stessa, e tacciando di "sciacallaggio" l'attività di alcuni giornalisti italiani, tra i quali appunto Tina Merlin, accusandola di speculazione politica per i suoi scritti[14]. Anni dopo Montanelli chiarì la sua posizione, sostenendo che all'epoca voleva evitare un "anticipo di condanna basato su delle voci" poiché secondo la sua opinione "in quel momento era largamente condiviso il sospetto che quelle voci volessero soltanto giovare alla causa di quella parte politica che reclamava la nazionalizzazione dell'industria elettrica". Prese comunque atto delle responsabilità penali accertate in sede giudiziaria e, pur ritenendo di essere stato male interpretato, si scusò comunque: "Con questo, non intendo difendere un errore. Lo commisi. Ma temo che, in analoghe circostanze, tornerei a commetterlo"[15]. Dalla costruzione al disastroI lavori della diga![]() Interno della cabina comandi centralizzati; il tecnico della foto è l'ing. Mario Pancini della SADE, morto suicida nel 1968. La foto è estratta dal film "H MAX 261,6m" di Uni Europa Film voluto dal progettista dell'opera a memoria del lavoro svolto
Dopo la seconda guerra mondiale il progetto Vajont, fortemente voluto dalla SADE, azienda elettrica privata di proprietà del Conte Volpi di Misurata, già presidente della conferedazione fascista degli industriali, inizia a prendere forma e viene quindi presentato per l'approvazione del Genio Civile. I controlli geologici iniziarono nel 1949 e con essi i primi atti di protesta delle amministrazioni coinvolte dal progetto: la costruzione della diga avrebbe infatti portato gli abitanti dei paesi di Casso e di Erto all'abbandono di abitazioni e di terreni produttivi. Nonostante le proteste degli abitanti della valle e i forti dubbi degli organi preposti al controllo del progetto, a metà degli anni cinquanta iniziarono i primi espropri fondiari e la preparazione del cantiere: i lavori per la costruzione della diga iniziarono nel 1956, senza l'effettiva autorizzazione ministeriale Il progetto ottenne la completa approvazione ministeriale il 17 luglio 1957. In seguito il progetto fu modificato: la diga avrebbe raggiunto l'altezza di 261,60 m, con un invaso utile di 152 milioni di metri cubi. L'invaso della diga fu a tutti gli effetti maggiore di quanto mai previsto. Il costo della costruzione della diga fu sostenuto grazie anche ad un contributo del 45% delle spese, erogato all'epoca della progettazione, dal governo.[10] Nell'agosto del 1958 iniziarono i getti per la costruzione della diga.[16] A lavori ormai iniziati si succedettero alcune scosse sismiche, la Sade fece pertanto effettuare ulteriori rilievi geologici che rilevarono l'esistenza di una grande paleofrana sul monte Toc, la quale avrebbe potuto cadere nel bacino artificiale formato dalla diga Alla fine della riprogettazione, che vide l'innalzamento di circa 60 m e la capacità di bacino triplicata, la diga del Vajont aveva le seguenti caratteristiche:
Le cause scatenanti le verifiche sulle sponde del lago![]() La diga vista da Longarone
Il 15 giugno 1957 il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici dette parere favorevole all'innalzamento della diga con la prescrizione di completare le indagini geologiche
con una decisione che in seguito destò numerosi dubbi, in particolare sull'assenza di una ratio nell'approvare un progetto per il quale venivano richieste ulteriori indagini. Se la questione è stata ampiamente superata dalla normativa moderna (che impone serrati controlli preventivi su tutto il bacino), questa raccomandazione è stata l'oggetto di una disputa tra i fautori delle diverse interpretazioni sui fatti del Vajont, in quanto alcune indagini erano effettivamente state svolte (ad esempio sotto l'abitato di Erto) e oggetto di una relazione di Dal Piaz del giugno-settembre 1957. Le evidenze successive dimostreranno l'incompletezza-inadeguatezza della stessa. Il 6 agosto 1957 venne consegnato alla SADE un nuovo rapporto geotecnico di Müller (il 2º) nel quale si evidenziavano forti pericoli di frana lungo la sponda sinistra del serbatoio. Era la prima relazione che infondeva dei dubbi sulla sponda sinistra del bacino, pur riferendosi alla sola parte frontale e più superficiale della grande frana del Toc che venne evidenziata solo anni dopo. In questo primo studio le sue indagini non rivelarono la paleofrana che poi sarebbe stata vista come causa determinante dei problemi al serbatoio, anche se la sua conclusione fu che il bacino idrico poteva causare frane, anche di un milione di metri cubi. Il 22 marzo 1959, dopo che i lavori di costruzione della diga del Vajont erano già iniziati, una frana di circa 3 milioni di metri cubi di roccia si riversò nel bacino della diga in località Pontesei, che era stata completata solo due anni prima dalla SADE stessa ed era tenuta sotto stretta osservazione per la presenza in loco di ben due frane: quella di "Pontesei-Fagarè", origine dell'inondazione e quella di "Pontesei spalla diga". L'onda generatasi uccise l'operaio Arcangelo Tiziani della ditta Cargnel, mentre due tecnici della SADE riuscirono a salvarsi. I successivi avvenimenti sono determinanti per analizzare il mutato atteggiamento dei tecnici della SADE, in particolare una lettera del giorno successivo (23 marzo):
In un'altra missiva del 27 marzo sempre relativa a Pontesei, Caloi afferma:
Gli scritti di Caloi sono esemplari per evidenziare sia perché mutò l'atteggiamento della SADE dopo i fatti di Pontesei che la spinsero sensatamente ad approfondire gli studi sul bacino del Vajont, sia per dimostrare un atteggiamento di connivenza o quantomeno di sudditanza di alcuni tecnici, rispetto all'operato della stessa (secondo alcuni autori in quanto iscritti nel "libro paga" della ditta). A tale proposito Edoardo Semenza scrive:
Al riguardo il tribunale dell'Aquila stabilì che la frana di Pontesei fosse discesa in circa due minuti. Nonostante Dal Piaz in una sua relazione legata alla costruzione della strada di circonvallazione in sponda sinistra del Vajont del 29 ottobre 1959 avesse ritenuto che non vi fossero rischi concreti di frane pericolose, gli avvenimenti di Pontesei avevano convinto la SADE ad approfondire il tema. L'incarico di approfondire lo studio delle sponde del bacino del Vajont fu quindi affidato a Müller, che come geomeccanico stava già seguendo i problemi delle imposte della diga. Le verifiche sulle sponde individuano la grande frana sul versante sinistro del bacinoEseguito un sopralluogo sul posto il 21 luglio 1959, Müller commissionò un piano di studio inizialmente solo in modo informale. Detto studio venne affidato al geologo Edoardo Semenza - figlio del capo progettista Carlo Semenza - che fu poi coadiuvato dal geologo Franco Giudici. Semenza scoprì in una ricognizione sul campo la presenza, nel versante sinistro della valle del Vajont, di evidenti pericoli derivanti da una zona di miloniti non cementate, lunga circa 1,5 km[10]. Ciò indusse Edoardo Semenza ad ipotizzare la presenza di una paleofrana, che interessava tutta l'area a più bassa quota del monte Toc che partendo dalle pareti scoscese sulla forra del torrente Vajont a nord ("Castelletto", "Punta del Toc" e "Parete Nord del Toc") superava la parte più pianeggiante delle pendici della montagna ("Pian del Toc" e "Pian della Pozza o della Paùsa") risalendo poi (in direzione sud) la dorsale in modo più impervio verso il "Torrione di Punta Vasei" e il "Becco del Toc". Informato della scoperta Müller formalizzò un piano di studio approfondito basato su una sua proposta scritta molto dettagliata inserita nel suo 6º rapporto del 10 ottobre 1959. La relazione definitiva Giudici-Semenza fu consegnata poi ufficialmente agli inizi di giugno 1960. Le scoperte fatte avevano anche suggerito di eseguire una indagine geosismica attraverso la supposta paleofrana che venne affidata al Prof. Pietro Caloi. I risultati ottenuti (novembre 1959) sembravano invece indicare che la zona a sinistra della vallata fosse "eccezionalmente" solida, rocce compatte coperte da soli 10-20 metri di detriti sciolti. Il rapporto di Caloi fu consegnato in via definitiva il 4 febbraio 1960. I risultati agli antipodi dei due studi imposero un approfondimento del tema che fu favorito dagli avvenimenti successivi. La prima prova d'invaso e le piogge evidenziano la grande frana![]() Nel frattempo i lavori di costruzione del manufatto erano continuati e nel settembre del 1959 la diga era ultimata. Il 28 ottobre 1959 la SADE avanzò domanda di invaso sperimentale fino a quota 600m slm, che fu approvata fino a quota 595m slm il 9 febbraio 1960. Nel mese di marzo del 1960, quando l'invaso del Vajont si trovava all'incirca a quota 590 m s.l.m nella parete settentrionale del Toc prospiciente la valle (nella parte ad est del torrente Massalezza praticamente di fronte al bivio per Casso) si verificò il crollo di una piccola porzione della "Parete Nord del Toc" vicino alla sua base occidentale. Inoltre si assistette alla rimobilitazione del "Castelletto del Toc" posto subito a ovest del torrente Massalezza e prospiciente la "Punta del Toc". Continuavano nel frattempo le indagini suggerite da Müller che nel maggio del 1960 portarono all'installazione dei primi capisaldi destinati a identificare eventuali movimenti franosi del Toc attraverso misure topografiche. Le misure, fatte con l'invaso a quota 595m slm, rilevarono movimenti della parte più a nord del Toc, con velocità che risultarono crescenti nei mesi successivi. Il 10 maggio 1960 la SADE chiese l'autorizzazione a portare l'invaso a quota 660m slm senza prima procedere con lo svaso, e la relativa autorizzazione venne concessa l'11 giugno 1960. Negli stessi giorni venne consegnata anche la relazione definitiva dello studio Giudici-Semenza, nel quale veniva confermata la supposta presenza della grande frana. Il 9 luglio 1960 venne consegnata la relazione di Dal Piaz a proposito della stabilità dei versanti di tutto il bacino. Per il versante settentrionale del Toc essa in sostanza negava l'esistenza della frana-paleofrana. Nel frattempo proseguivano le verifiche di Semenza relative alla sua ipotesi della paleofrana. In particolare egli scoprì tra la fine di luglio e il 2 agosto 1960 il probabile margine meridionale della paleofrana (ossia la parte montana della stessa e più vicina alla cima del Toc) in corrispondenza del punto di separazione del torrente Massalezza nei due rami occidentale e orientale convergenti a "Y" nel corso principale e di solito asciutti. In essi si poteva osservare il passaggio dalla roccia sana affiorante a sud (lato montagna), a quella frantumata o finemente macinata affiorante a nord (lato valle del Vajont). Sul finire del mese di ottobre 1960 con l'invaso all'incirca a quota 645m slm, mentre i movimenti della frana raggiungevano e superavano l'allarmante velocità di ben 3 cm al giorno (che non venne più raggiunta fino nell'imminenza del distacco nel 1963), sulle pendici del monte Toc (da quota 1200 verso il basso) fece la sua comparsa la fessura perimetrale lato montagna della massa in movimento. I suoi margini laterali risultavano evidenti solo nella parte a maggior quota, mentre apparivano scarsamente percepibili alle quote più basse. Questa grande fessura che sulla montagna disegnava grossomodo un grande "M" (letta dal lato del torrente Vajont), larga tra 50 cm e 1m, si immergeva in profondità con una inclinazione di circa 40°. Le due punte della "M" partivano da quota 1200m slm e 1400m slm e arrivavano fino a circa quota 600m slm. Il 4 novembre 1960 ci fu un segnale d'allarme presagio della catastrofe: circa 750.000 m³ di terra e roccia (la cui parte prospiciente la forra si era già mossa accasciandosi qualche decina di metri più in basso fin dalla primavera di quell'anno) franarono nel bacino, che si trovava con l'acqua a quota 650m slm. I nuovi studi proposti e i tentativi di salvare l'impianto![]() Carlo Semenza, progettista della diga e ideatore della "galleria di sorpasso o bypass" sul versante destro della valle del Vajont
I movimenti sull'intero fianco della montagna, che interessavano un fronte di quasi 3 km, con evidenti segni di movimenti trascorrenti sui lati della grande "M" che si era venuta a formare (indice che il movimento della massa era parallelo a quello della linea laterale di rottura e quindi era in direzione nord ossia verso il bacino), pur se non interpretati in modo unanime (le discordanze riguardavano oramai solo la profondità della massa in movimento e quindi l'effettivo volume in metri cubi della stessa) segnarono un momento di svolta. I dirigenti della SADE interpellarono immediatamente Müller che dopo alcuni sopralluoghi consigliò loro di abbassare il livello del lago. Venne dunque eseguito uno svaso controllato (5m in due giorni) e graduale (seguito quindi da un riposo di quattro giorni con bacino a livello costante). Questo permise un immediato rallentamento dei movimenti e con l'acqua all'incirca a quota 600m slm, un arresto quasi definitivo (dicembre 1960). Venne subito eseguita (dicembre 1960) una nuova indagine geologica (diretta ancora da Caloi) dalla quale emerse che la roccia ora aveva caratteristiche meccaniche pessime. Alcuni autori ritengono che la precedente indagine di Caloi (nella quale erano stati esclusi problemi di sorta per le pendici del monte Toc) non fosse stata eseguita o interpretata correttamente. La relazione fu consegnata ufficialmente il 10 febbraio 1961. Resosi conto che la caduta di una frana (anche nell'ipotesi più ottimistica sul volume) avrebbe reso inservibile il serbatoio ostruendone la "foce" e ponendo in pericolo anche il resto della valle (con un incontrollato aumento delle acque del lago), Carlo Semenza propose la costruzione di una galleria (passata alla storia con il nome di galleria di sorpasso o bypass) che passando sotto al monte Salta sul versante destro della valle, riuscisse a superare la zona "pericolante" sul fianco sinistro del Vajont. La galleria fu scavata tra il febbraio e il settembre del 1961 con imbocco a est presso il Mulino delle Spesse a quota 617,4m slm (vi si può accedere ancora scendendo dalla strada che da Erto porta alla diga svoltando a sinistra prima della galleria artificiale paramassi) e sbocco a ridosso della diga a quota 600,7m slm. Questo impose di mantenere l'acqua del serbatoio sotto questo livello per tutto il periodo dei lavori. Vennero inoltre realizzate due finestre di servizio al ponte di Casso (613,9m) e al ponte del Colomber (608m). Nuovi elementi di studio: il 15º rapporto MüllerIl rapporto consegnato da Müller il 3 febbraio 1961, noto comunemente come il numero progressivo 15º in quanto era per l'appunto il suo 15º rapporto, si occupava esclusivamente della frana delle pendici del monte Toc ed è da sempre uno dei punti di maggior contrasto tra gli autori che si sono occupati delle vicende del Vajont. Pur non concordando con Giudici-Semenza sull'ipotesi della paleofrana, il geomeccanico austriaco concorda con loro sul fatto che vi sia sul fianco sinistro del Vajont una grande frana, indicando come a suo parere non esistano dubbi sulla profonda giacitura del piano di scivolamento (spessore della frana) e ipotizzando una massa in movimento di circa 200 milioni di metri cubi di materiale (errando di circa un quarto in meno rispetto a quanto sarà poi verificato in seguito), ma fornendo tuttavia uno dei dati di previsione più precisi allora disponibili. Questa individuazione abbastanza precisa della massa in movimento, fu di fatto il motivo del contendere tra i vari autori, in quanto i sostenitori della tesi della prevedibilità hanno sempre utilizzato questo rapporto per dimostrare che non era possibile che i tecnici della SADE prima, ENEL-SADE poi, non avessero chiaramente in vista, i valori delle masse in gioco. E del perché nelle prove sul modello idraulico (che verrà attrezzato a Nove e di cui si tratterà nel paragrafo successivo) non ne siano mai state eseguite partendo dalla sua ipotesi dei volumi in movimento. Effettivamente la sua relazione rimane illuminante sotto molti aspetti, sia per quel che riguarda l'individuazione della correlazione tra livello dell'acqua del lago e precipitazioni rispetto ai movimenti della frana, sia per aver fornito tutta una serie di misure da effettuare e contromisure da poter utilizzare, per poter risolvere i problemi che stavano attanagliando il serbatoio. Studi sul modello idraulico del bacinoDopo la scoperta della frana delle pendici settentrionali del monte Toc, si decise di approfondire gli studi sui seguenti effetti: 1) Azioni dinamiche sulla diga; 2) Effetti d'onda nel serbatoio ed eventuali pericoli per le località vicine, con particolare attenzione al paese di Erto. 3) Ipotesi di una parziale rottura della diga e conseguente esame dell'onda di rotta e della sua propagazione lungo l'ultimo tratto del Vajont e lungo il Piave, fino a Soverzene ed oltre. Lo studio del punto 1 venne eseguito presso l'I.S.M.E.S. (Istituto Sperimentale Modelli e Strutture) di Bergamo (nato nel 1951), mentre per gli altri la Sade decise la costruzione di un modello fisico-idraulico del bacino nel quale poter eseguire alcuni esperimenti sugli effetti della caduta di una frana in un serbatoio. Il modello in scala 1:200 del bacino, che è tuttora visitabile, fu allestito presso la centrale idroelettrica di Nove (loc. Borgo Botteon di Vittorio Veneto) della SADE e divenne il C.I.M. (Centro Modelli Idraulici). Gli esperimenti furono affidati ai professori Ghetti e Marzolo, docenti universitari dell'Istituto di Idraulica e Costruzioni Idrauliche dell'Università di Padova e furono eseguiti grazie al finanziamento della Sade e sotto il controllo dell'ufficio studi della società stessa. Lo studio si prefiggeva di verificare gli effetti idraulici sulla diga e sulle sponde del serbatoio del franamento e fu dunque indirizzato in questo senso piuttosto che a riprodurre il fenomeno naturale della frana. Gli esperimenti vennero condotti in due diverse serie (agosto-settembre 1961 e gennaio-aprile 1962), delle quali la prima servì sostanzialmente per affinare il modello. La prima serie di esperimentiLa prima serie di 5 esperimenti ebbe inizio il 30 agosto 1961 con una superficie di scivolamento della frana piana inclinata di 30°, costituita da un tavolato di legno rivestito da una lamiera. La massa franante era simulata da ghiaia trattenuta tramite reti flessibili metalliche, che venivano inizialmente trattenute in posizione mediante funi allentate poi all'improvviso. All'inizio di settembre furono eseguite altre 4 prove destinate ad avere scopo orientativo. La prima sempre con un piano inclinato di 30°, le seguenti 3 con un piano inclinato di 42°. Riscontrata l'impossibilità di riprodurre nel modello il naturale fenomeno geologico della frana, il modello venne elaborato modificando la superficie di movimento della frana che venne sostituita con una in muratura (i relativi profili furono elaborati da E.Semenza che per redigerli si avvalse anche dei sondaggi che erano già stati effettuati e che avevano fornito sufficienti elementi di giudizio in questo senso) e per rendere possibile la variazione della velocità di caduta della frana nel serbatoio (resa difficile dalla nuova forma "a dorso" della superficie di movimento) e simulare la compattezza del materiale in movimento (che nel modello rimaneva la ghiaia) vennero inseriti dei settori rigidi che vennero trainati attraverso delle funi tirate da un trattore. La seconda serie di esperimentiIn questi 17 esperimenti condotti dal 3 gennaio 1962 al 24 aprile 1962 il materiale "franante" era ancora della ghiaia questa volta trattenuta attraverso delle reti di canapa e delle cordicelle. Partendo dall'ipotesi di Muller relativa alle diverse caratteristiche della massa in movimento tra la parte a valle del torrente Massalezza (ovest) e la parte a monte dello stesso (est), tutti gli esperimenti furono compiuti facendo scendere quelle due ipotetiche parti della frana separatamente. Nel modello tuttavia le due frane vennero fatte scendere inizialmente in tempi diversi in modo che i loro effetti fossero totalmente separati e successivamente quando l'ondata prodotta dalla prima tornava indietro in modo da ottenere un sovralzo totale dell'acqua del lago anche maggiore. La relazione finale GhettiIl sovralzo totale dell'acqua del serbatoio (misurato attraverso appositi strumenti) veniva scomposto in "sovralzo statico" che era l'effetto non transitorio di aumento del livello dell'acqua rimasta nel serbatoio dopo il franamento per effetto dell'immersione della frana nel serbatoio (una volta riraggiunto lo stato di quiete) e in "sovralzo dinamico" dovuto al moto ondoso temporaneo prodotto dal franamento. Il sovralzo statico dipendeva dal volume della frana che rimaneva immerso nel serbatoio, mentre il sovralzo dinamico dipendeva quasi esclusivamente dalla velocità di caduta della frana (mentre era trascurabilmente legato al volume della stessa). In base a questa simulazione (in seguito al disastro oggetto di critiche poiché considerata da alcuni approssimativa) si determinò che il limite di invaso a quota 700m non avrebbe provocato danni sopra quota 730m slm lungo le sponde del serbatoio, mentre una minima quantità d'acqua avrebbe superato il ciglio della diga (722,5m) procurando danni trascurabili a valle della stessa.
Tuttavia il modello in scala della probabile frana non risultò successivamente attendibile, trascurabilmente poiché il modello della frana era composto di materiali diversi da quelli originali (invece di usare una massa compatta per simulare la frana, venne usata della ghiaia, che produsse effetti leggermente minori di una massa dello stesso volume, ma più compatta) e principalmente perché lo studio partì da un errore di base nella valutazione del tempo di caduta della frana (valore determinante per calcolare correttamente il sovralzo dinamico). Tuttavia, in una riunione del 30 marzo 1962, venne espressa dai tecnici la convinzione che il tempo di 1 minuto per la caduta della frana sperimentato da Ghetti fosse troppo breve. Il che probabilmente convinse molti che anche superare la quota di 700m slm non avrebbe generato alcun tipo di pericolo anche nel caso di caduta della frana. La seconda prova di invasoLa seconda prova di invaso fu eseguita sotto il nome dell'ing. Pancini che decise invasare fino ad una certa quota per poi eseguire uno svaso rapido. Lo scopo di questa prova era di far cadere a "pezzi" il monte Toc. Anche se questa prova sembrava funzionare non si verificò una frana di normali dimensioni come era stato ipotizzato. Cosi fallì la seconda prova d'invaso La terza prova di invasoDal 1961 al 1963 furono praticati numerosi invasi e svasi per limitare il più possibile le possibilità di smottamento del terreno circostante la diga: il 4 settembre 1963 si arrivò a quota 710 m. Gli abitanti della zona denunciarono movimenti del terreno e scosse telluriche, inoltre venivano chiaramente uditi boati provenienti dalla montagna. Il disastroAlla fine dell'estate del 1963, poiché i sensori rilevarono movimenti preoccupanti della montagna, venne deciso di diminuire gradualmente l'altezza dell'invaso, sia per cercare di evitare il distacco di una frana, sia per evitare che una possibile frana potesse provocare un'onda che scavalcasse la diga. Ma alle 22,39 del 9 ottobre 1963 si staccò dalla costa del Monte Toc (che in friulano, abbreviazione di "patoc", significa "marcio") una frana lunga 2 km di oltre 270 milioni di metri cubi di rocce e terra. In circa 20 secondi la frana arrivò a valle, generando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale.[17] ![]() Immagine delle vittime del disastro
L'impatto con l'acqua generò tre onde: una si diresse verso l'alto, lambì le abitazioni di Casso e ricadendo sulla frana andò a scavare il bacino del laghetto di Massalezza; un'altra si diresse verso le sponde del lago e attraverso un'azione di dilavamento delle stesse distrusse alcune località in Comune di Erto e Casso e la terza (di circa 50 milioni di metri cubi di acqua), scavalcò il ciglio della diga, che rimase intatta, ad eccezione del coronamento percorso dalla strada di circonvallazione che conduceva al versante sinistro del Vajont, e precipitò nella stretta valle sottostante. I circa 25 milioni di metri cubi d'acqua che riuscirono a scavalcare l'opera raggiunsero il greto sassoso della valle del Piave e asportarono consistenti detriti che si riversarono sul settore meridionale di Longarone causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono il municipio e le case poste a nord di questo edificio) e di altri nuclei limitrofi e la morte, nel complesso, di circa 2000 persone (i dati ufficiali parlano di 1918 vittime, ma non è possibile determinarne con certezza il numero). È stato stimato che l'onda d'urto dovuta allo spostamento d'aria fosse di intensità eguale, se non addirittura superiore, a quella generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. Alle ore 5:30 della mattina del 10 ottobre 1963 i primi militari dell'Esercito Italiano arrivarono sul luogo per portare soccorso e recuperare i morti. Tra i militari intervenuti vi erano soprattutto Alpini, alcuni dei quali appartenenti all'arma del Genio che scavarono anche a mano per riuscire a trovare i corpi dei dispersi. Questi trovarono anche alcune casseforti, non più apribili con le normali chiavi, in quanto molto danneggiate.[18] Dei circa 2000 morti, sono stati recuperati solo 1500 cadaveri, la metà dei quali non è stato possibile riconoscere.[17] Dopo il disastroIl Ministero dei Lavori Pubblici avviò immediatamente un'inchiesta per individuare le cause della catastrofe. Iniziano le operazioni di messa in sicurezza della valle. L'Enel installa una stazione di pompaggio per mantenere il livello del settore residuo del lago (quello a monte) entro limiti di sicurezza, giacché essendo rimasto senza emissario avrebbe potuto sommergere Erto, e contemporaneamente vengono avviati i lavori di ripristino e prolungamento oltre lo sbarramento della galleria di bypass costruita prima del disastro (e che tuttora assicura il deflusso delle acque oltre la diga). Nonostante le rassicurazioni dei geologi si decide però di trasferire la popolazione di Erto. Pochi dei vecchi abitanti sono rientrati nelle case e le hanno ristrutturate, mentre altri occupano il nuovo quartiere costruito più in alto.
Il 20 febbraio 1968 il Giudice istruttore di Belluno, Mario Fabbri, deposita la sentenza del procedimento penale contro Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin e Augusto Ghetti. Due di questi, Penta e Greco, nel frattempo muoiono, mentre Pancini si toglie la vita il 28 novembre di quell'anno. Dal 15 al 25 marzo del 1971 a Roma si svolge il processo di Cassazione, dove viene confermato il verdetto del processo di secondo grado, ma vengono ridotte le pene a Biadene e a Sensidoni: il primo è condannato a cinque anni di reclusione, il secondo a dieci mesi, ma in seguito a Biadene verranno condonati tre anni per problemi di salute Nel 1971, per permettere agli sfollati ancora senza nuove case di tornare alla normalità, venne costruito il comune di Vajont presso Maniago.[19] Nel 1997 la Montedison (che aveva acquisito la SADE) fu condannata a risarcire i comuni colpiti dalla catastrofe. La vicenda si concluse nel 2000 con un accordo per la ripartizione degli oneri di risarcimento danni tra ENEL, Montedison e Stato Italiano al 33,3% ciascuno.[20][21][22] La comunità riprese subito a ricostruire non solo il tessuto sociale distrutto, ma anche la città. Un altro centro chiamato Nuova Erto venne costruito a Ponte nelle Alpi (provincia di Belluno), di cui costituisce un quartiere. Infine, sopra il vecchio abitato originale di Erto venne costruito il paese di Erto attuale. Si parla di "Corsa al collaudo" come causa del disastro. In realtà questa corsa, secondo alcuni motivata dalla nazionalizzazione delle Industrie Elettriche avvenuta nel 1963 è infondata (ed è stato assodato in sede giudiziaria). Il decreto che istituiva l'ENEL indicava come termini di risarcimento ai proprietari delle Società Elettriche il pagamento del pacchetto azionario il cui valore era fissato come "media degli anni compresi tra il 1959 e il 1962". A dimostrazione di come qualsiasi azione intrapresa al collaudo di nuovi impianti volta ad aumentare il controvalore erogato dallo Stato per la nazionalizzazione non avrebbe mai potuto portare al conseguimento di questo obiettivo. Per cercare di riavviare l'economia locale a seguito della tragedia, il Parlamento italiano approvò la legge n. 357/1964 (detta "Legge Vajont"): essa prevedeva che ogni abitante dei comuni colpiti che fosse dotato di una licenza commerciale, artigianale o industriale al 9 ottobre 1963 venisse dotato di un contributo a fondo perduto del 20% del valore dell'attività distrutta, un ulteriore finanziamento pari all'80% a tasso di interesse fisso per la durata di 15 anni, e che per 10 anni venisse esentato dal pagamento dell'imposta sulla ricchezza mobile. Se poi il beneficiario non avesse potuto o voluto ricominciare a svolgere l'attività precedente, aveva il diritto di cedere a terzi la licenza, i quali godevano delle stesse esenzioni e vantaggi a condizione di operare in un'area che inizialmente corrispondeva a quella del disastro, ma che poi venne estesa all'intero territorio delle regioni in qualche modo interessate (Trentino, Veneto, Friuli - Venezia Giulia). Fu così che aziende ed imprese del tutto estranee alla vicenda, acquistando le licenze in oggetto per prezzi irrisori, poterono godere di finanziamenti pubblici particolarmente rilevanti, inizialmente destinati alle vittime[23]. Le causeLe possibili cause del disastro del Vajont sono[24]:
Prevedibilità o imprevedibilità dell'eventoAl fine di dirimere una delle questioni maggiormente controverse della vicenda, va chiarito che, alla luce di quanto esposto precedentemente, la frana presente sul monte Toc e poi innescatasi nella notte del 9 ottobre 1963 era stata apertamente individuata già dall'estate del 1959. Inoltre se almeno inizialmente i tecnici avevano discusso sulle sue effettive dimensioni (come metri cubi di materiale franoso potenzialmente in movimento), a partire almeno dall'anno 1961 nel quale vennero installati i piezometri (profondi circa 175m), è oggettivamente poco credibile ritenere che gli specialisti non avessero chiara l'evidenza che il movimento franoso interessasse in blocco una massa di grande spessore (profondità) e quindi di enorme volume, in quanto i piezometri, ad esclusione degli ultimi metri del numero 4 (secondo altre fonti il 2), non denunciavano rotture o deformazioni[16]. Le indecisioni riguardavano la velocità di movimento (connessa al piano di scivolamento) ed eventualmente i tempi di caduta della frana, in quanto taluni dubitavano sull'effettiva unicità della stessa, essendo più propensi a dividerla in due porzioni (a est e ovest del torrente Massalezza), destinate a distaccarsi in tempi diversi. Va infatti ricordato che la decisione di costruire una galleria di sorpasso o bypass della frana sul fianco della valle opposto a quello "pericolante" (che avesse contemporaneamente salvato l'invaso e permesso il controllo del lago a monte rimasto senza emissario in caso di caduta della frana) fu avanzata già nel novembre del 1960 e i lavori di costruzione della stessa iniziarono già dal febbraio del 1961. Era dunque chiaro che la frana era di tale portata da essere in grado di rendere inefficiente il serbatoio interrandone completamente circa 2–3 km dello stesso, e riducendone la portata di quasi la metà. Le rilevazioni sui movimenti della frana attraverso capisaldi cominciarono già nell'estate del 1960, mentre dati sui livelli di acqua nei piezometri furono raccolti dall'estate successiva.[16][25][26]. L'oggettiva imprevedibilità dell'evento riguardava solo il "momento esatto" nel quale la frana si sarebbe effettivamente messa in movimento e, solo in parte, di quali sarebbero stati gli eventi scatenanti. Le variabili in gioco furono subito legate all'altezza dell'acqua nell'invaso e a una sua eventuale, ma quasi certa, correlazione con le precipitazioni atmosferiche.
ossia maggio 1960
Va tuttavia ricordato che i movimenti dei capisaldi nei punti di rilevamento del movimento franoso installati già dall'estate del 1960 erano risultati assolutamente allarmanti già dagli inizi di agosto del 1963, andando di fatto peggiorando durante tutto il periodo che portò al distacco della frana agli inizi di ottobre.[16] ![]() ![]() Una maggiore cautela avrebbe dovuto spingere i tecnici dell'ENEL-SADE a interrompere la terza prova d'invaso già in agosto, anche se essi potrebbero essere stati inizialmente fuorviati dalla teoria-ipotesi della "prima bagnatura" formulata da Müller e avvalorata da Penta. Essi tralasciarono purtroppo l'importanza della piovosità pure affermata da Müller già nel 1961[16][25]. Infine va fatta menzione del fatto che durante la mattina e il pomeriggio di quel tragico 9 ottobre 1963, a causa dei movimenti impressionanti registrati dai capisaldi rispetto ai giorni precedenti (30 cm contro 5 cm) fu chiaro che la caduta della frana era imminente tanto che molte località del Comune di Erto furono sgomberate durante quella giornata. Fu anche deciso di sospendere la circolazione stradale sulla statale Alemagna, ma non vennero sgombrati i paesi del fondovalle e tutte le frazioni di Erto più prossime alle sponde dell'invaso[16][25]. È invece assolutamente falso e non suffragato dalle evidenze anche processuali, che la causa del disastro possa essere riconducibile ad una ipotizzata "corsa al collaudo". I sostenitori di questa tesi la associano all'esigenza della SADE di farsi pagare l'impianto come collaudato al momento del passaggio dello stesso all'ENEL, mentre risulta in modo evidente che la legge che creava l'ente prevedeva un indennizzo alla SADE calcolato sul valore in Borsa delle sue azioni nel periodo 1959-1961[27]. Tuttavia non va dimenticato che (anche se non sarebbero più stati incassati dalla SADE, ma sarebbero stati incassati dall'ENEL), restavano da incamerare la parte di fondi erogati dallo stato come finanziamento all'opera e rimasti congelati per legge fino a dopo il collaudo. Il collaudo dell'impianto risultava quindi necessario sia per onorare tutto il lavoro già svolto, sia per sbloccare questi finanziamenti, giacché anche l'ENEL era obbligata a stilare un proprio bilancio. Va ricordato infatti che la quota di collaudo era di 722,5m (slm) e la frana fu innescata durante la terza prova di invaso che aveva lo scopo di raggiungere solo quota 715m s.l.m. Secondo i sostenitori della "corsa al collaudo" non bisogna però dimenticare che prolungare il periodo di non utilizzo dell'impianto equivaleva comunque ad ammortizzare in un tempo più lungo il costo del lavoro svolto. I costi di costruzione per giunta erano lievitati a causa delle varianti in corso d'opera necessarie per il rinforzo delle spalle della diga e per la costruzione della galleria di sorpasso (scavata su roccia compatta): tutte opere non preventivate e molto costose (viene calcolato che la sola galleria di sorpasso abbia inciso per quasi un quarto su tutti i costi sostenuti). È infine solo il caso di far notare, come fosse un naturale e assoluto interesse della SADE, quello di mantenere il massimo riserbo circa i problemi che stavano insorgendo sul possibile inutilizzo del bacino del Vajont, dato che se la notizia fosse divenuta di dominio pubblico il valore delle sue azioni si sarebbe certamente deprezzato di molto. Tuttavia è stato dai più ritenuto moralmente inaccettabile l'aver provato ad innalzare il lago oltre la quota di 700m slm, che durante le prove eseguite sul modello fisico-dinamico del bacino allestito a Nove era stata indicata come di sicurezza (e sempre tenendo a mente che le prove eseguite erano state falsate da un'erronea valutazione della velocità di movimento della frana). La relazione infatti, pur con i limiti teorico-pratici già esposti, prevedeva conseguenze drammatiche per i paesi a fondovalle nel caso in cui la frana fosse caduta con l'invaso a una quota superiore a 700m slm. Specie considerando che i dati sui movimenti dei capisaldi erano risultati subito pesantemente allarmanti (con movimento degli stessi anche di più centimetri al giorno), non appena l'acqua dell'invaso ebbe modo di superare quota 700m[16]. Secondo alcuni autori il disastro fu fortuitamente favorito dalla crisi idrologica conseguente alla scarsissima piovosità dell'inverno 1962-1963 che spinsero l'ENEL a favorire provvedimenti tendenti a spingere al massimo le riserve di serbatoio, provvedimenti che forse portarono l'Ing. Biadene a richiedere l'anticipo della terza prova di invaso. Se questo avvenne tuttavia è falso affermare che questo fu fatto per poter sfruttare la nuova centrale del Colomber, in quanto la stessa poteva funzionare solo con il massimo invaso. Più propriamente l'acqua "incamerata" nel serbatoio del Vajont veniva sfruttata dalla centrale di Soverzene[16]. Uno dei maggiori problemi di questo disastro industriale fu il fatto che esso si trasformò presto in un "caso politico", con uno schieramento allineato sulla tesi dell'imprevedibilità, e l'altro sul fronte opposto. Questo fu enfatizzato dal fatto che i tecnici della SADE e del Ministero avevano avuto un comportamento sostanzialmente omertoso rispetto alla grande frana del Toc, che fu di fatto tenuta nascosta ai politici locali. Inoltre uno dei pochi giornali che si era occupato approfonditamente della vicenda prima della tragedia, era l'Unità. Se a questo si somma uno sconsiderato atteggiamento della SADE che aveva denunciato alla magistratura la testata per procurato allarme, si capisce come il sopraggiungere della tragedia portò immediatamente le parti su fronti opposti e per nulla concilianti che ebbero il loro momento di massima enfasi con la stesura di una doppia relazione Parlamentare da parte della commissione istituita per fare luce sul caso. Le sentenze definitive della magistratura decretarono tuttavia la effettiva prevedibilità dell'evento condannando Biadene e Sensidoni per inondazione aggravata dalla prevedibilità dello stesso. Vittime del VajontLe vittime furono 1.910, ma venenro recuperati solo 1.500 cadaveri. Nel disastro morirono 487 bambini[28]. La vittima più giovane del disastro fu Claudio Martinelli di Erto e Casso (PN), nato il 18/09/1963 con solo 21 giorni di vita[29], la vittima più vecchia fu Amalia Pancot nata il 26/01/1870 di 93 anni di Conegliano (TV)[30].
Fonte: oggi.it Note
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Ultimo aggiornamento Sabato 12 Ottobre 2013 12:10 |