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Lodo Rete 4 |
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Venerdì 14 Dicembre 2012 15:19 | |||||||||||||||||||||||||
Per lodo Retequattro si intende l'insieme delle sentenze espresse e leggi emanate riguardanti Rete 4, per le quali l'emittente televisiva avrebbe dovuto lasciare libere le frequenze analogiche ad altre emittenti, mentre avrebbe potuto trasmettere liberamente in tutte le altre forme. Nessuna di esse è stata rispettata.
Vacatio legis e «Decreti Berlusconi»
All'inizio degli anni '80 tutte le frequenze tv disponibili per gli operatori privati erano già state occupate. In Italia infatti, a differenza degli altri paesi europei, era avvenuta una rapida proliferazione di centinaia di emittenti locali, alcune delle quali avevano iniziato a trasmettere anche su scala extraregionale. La legge d'altronde non prevedeva, ma nemmeno escludeva, la possibilità per i privati di interconnettere i propri ripetitori situati in regioni diverse in modo da poter trasmettere lo stesso programma in tutto il territorio nazionale. La sentenza 202 della Corte Costituzionale (1976) aveva cancellato il monopolio pubblico, ma solo in ambito locale mentre nulla era stato deciso dal Parlamento in ambito nazionale.
Sfruttando la mancanza di un divieto esplicito, Telemilano 58, la tv privata della Fininvest, diffonde dai suoi ripetitori, sparsi su tutto il territorio nazionale, uno stesso programma preregistrato su videocassetta. I ripetitori locali dell'emittente trasmettono con minime differenze di orario gli uni dagli altri, quindi la legge è rispettata sul piano formale, ma appare chiaro come la programmazione diventi di fatto a carattere nazionale.
Nell'estate del 1981 in attesa di una nuova sentenza della Corte costituzionale, Silvio Berlusconi, presidente della Fininvest, dichiara che non si può fare televisione se non si è collegati con tutto il paese e con l'estero; la Corte si pronuncia ribadendo il limite per le televisioni locali a trasmettere solo in ambito locale. Forte di questa sentenza la Rai si rivolge alla magistratura denunciando Canale 5 ed altri circuiti per "la contemporaneità delle trasmissioni, non via etere, ma a mezzo videocassette preduplicate su varie emittenti, intaccando così il privilegio monopolistico".
Nell'agosto 1984 la Fininvest, dopo l'acquisto sia di Italia 1 che di Rete 4, divenne l'unico operatore privato televisivo nazionale, costituendo un monopolio di fatto. In assenza di una legislazione in materia, intervennero alcuni pretori di città capoluogo (Torino, Roma e Pescara) che, sfruttando le norme del codice postale, ingiunsero alla Fininvest di interrompere l'interconnessione tra i suoi ripetitori. La Fininvest reagì oscurando di propria iniziativa i ripetitori in Piemonte, Lazio e Abruzzo, e creando un caso mediatico.
Intervenne il Governo Craxi I con un primo decreto legge il 20 ottobre 1984. Furono sollevate eccezioni di costituzionalità ed il 28 novembre il decreto venne bocciato alla Camera[4]. Il 6 dicembre 1984 ne venne ripresentato un secondo, che passò l'esame delle Camere nel 1985, venendo poi convertito in legge. Per entrambi i decreti legge (come per il terzo, che verrà emanato il 1º giugno 1985), si parlò comunemente di «Decreti Berlusconi». Scopo dei decreti fu autorizzare in via temporanea le reti nazionali private a trasmettere. Il sistema necessitava sempre più di una normativa, ma il Parlamento non si mosse e la vacatio legis continuò.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 826 del 14 luglio 1988 tornò ad occuparsi del sistema radiotelevisivo.
Dalla «Legge Mammì» alla «Legge Maccanico»
Nell'agosto 1990, a distanza di due anni dalla sentenza della Consulta, il Parlamento emanò la nuova «Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato».
Il 7 dicembre 1994 la Corte Costituzionale (sentenza n. 420) bocciò la legge Mammì definendola «incoerente, irragionevole» e inidonea a garantire il pluralismo in materia televisiva. L'articolo 15, comma quarto della legge fu dichiarato incostituzionale per violazione dell'articolo 3 della Costituzione; la Consulta sollecitò quindi il legislatore a trovare una soluzione definitiva entro l’agosto 1996, rispettando l'auspicio di aumentare il pluralismo informativo (art. 21 Cost.). Secondo il pronunciamento, la legge del 1990 non risolveva i problemi di concentrazione che la Corte aveva evidenziato nella sua sentenza del 1988, in quanto le 3 reti possibili, su un massimo di 12, di cui 9 date in concessione ai privati, avrebbero continuato a permettere ad un unico soggetto (la cui situazione era già stata definita incostituzionale precedentemente) di controllare un terzo delle reti (superando il tetto del 25% fissato dalla legge Mammì), ma anzi li aggravava, perché, in una situazione in cui vi è già una "posizione dominante", fissando a 9 le reti in concessione ai privati, rispetto all'assenza di limiti precedenti alla legge del 1990, si tiene "fuori dalla categoria dei soggetti privati concessionari [...] ogni ulteriore emittente nazionale non utilmente collocata in graduatoria", impedendo quindi l'accesso a possibili nuovi concorrenti che porterebbero un maggiore pluralismo.
Ma nel 1995 l'esito di un referendum popolare mantenne la situazione inalterata.
Il 22 maggio 1997 il Parlamento approvò la «Legge Maccanico»[8]. Recependo il dettato della Corte, la legge vietava ad uno stesso soggetto di essere titolare di concessioni o autorizzazioni che consentissero di irradiare più del 20 per cento delle reti televisive analogiche in ambito nazionale. La norma istituiva l'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni e, colmando una lacuna decennale, prevedeva l'approvazione di un «Piano nazionale delle frequenze». Nell'attesa dell'approvazione del Piano, il termine ultimo del regime di prorogatio, fissato dalla legge Mammì all'agosto 1996, era posticipato all'aprile 1998.
Il ricorso di Di Stefano
Il Piano nazionale delle frequenze fu approvato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni nel 1998. L'Autorità individuò 11 reti televisive a copertura nazionale, da assegnare ad emittenti private nazionali. Su tale numero era calcolato il 20 per cento - limite antitrust della Legge Maccanico - pari a due reti. Delle 11 reti, tre erano assegnate per legge al servizio pubblico (la Rai); le restanti otto reti a copertura nazionale sarebbero state assegnate con una gara pubblica [9]. I tempi del «Far west dell'etere» erano finalmente terminati.
Rete 4 perse così il diritto di trasmettere.
In ogni caso, fino ad oggi, Europa 7 non è riuscita ancora a trasmettere: il Ministero, contravvenendo al risultato della gara pubblica, non concesse le frequenze, e con un'autorizzazione ministeriale del 1999 (non prevista da nessuna legge) permette la prosecuzione delle trasmissioni analogiche a Rete 4, che in base alla gara pubblica non ne aveva diritto. Così comincia da parte della società Europa 7 una serie di ricorsi al Tribunale Amministrativo Regionale (TAR) del Lazio, al Consiglio di Stato e alla Corte Costituzionale.
Nel novembre 2002, interviene la Corte Costituzionale, a cui viene chiesto di valutare la costituzionalità degli articoli art. 3, comma 6 e 7, della legge 31 luglio 1997, n. 249, che permettono a chi ha un numero di reti superiore alle due massime previste di prorogare le trasmissioni in analogico, a patto che a queste si inizino ad affiancare le trasmissioni in digitale, fino ad un termine che doveva essere deciso dall'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. La corte con la sentenza 466/2002 [10], conferma, come già affermato nel 1994 , che nessun privato può possedere più di 2 frequenze televisive e le reti eccedenti (in questo caso Rete 4 e TELE+ Nero, devono cessare la trasmissione in via analogica terrestre.
La Corte specifica anche che un accentramento di reti è anche ben più grave che nel 1994, essendoci state allora 12 frequenze nazionali disponibili in chiaro, mentre nel 2002 (quando viene emessa la sentenza) ve ne sono solo 11 disponibili, alcune delle quali peraltro assegnate a emittenti che trasmettono in forma criptata. La Corte, tuttavia ritiene non incostituzionale l'art 3 comma 6 (che ammette le proroghe), ma incostituzionale l'art. 3 comma 7 (per cui la fissazione della proroga al poter usare le frequenze terrestri prima del trasferimento obbligatorio alle trasmissioni digitali non era fissato dalla legge e la sua decisione era demandata all'Autorità per le Comunicazioni) e fissa un limite improrogabile entro il 31 dicembre 2003 per il passaggio esclusivo al satellite e/o al cavo (basandosi su una valutazione dell'AGCOM che riteneva quella data sufficiente per trasferire tutte le trasmissioni di Rete 4 e TELE+ Nero su altre piattaforme tecnologiche), senza ovviamente entrare nello specifico del caso della ricorrente Europa 7 (che aveva chiesto di considerare incostituzionali entrambi i commi, in quanto "l'attuale normativa di settore", ovvero le proroghe per le reti eccedenti regolate dai due commi, "le impedirebbe di utilizzare concretamente le frequenze che le sono state assegnate nella fase di pianificazione"), che per le precedenti decisioni (il DM del luglio 1999) rimaneva comunque l'assegnataria delle frequenze che così si fossero liberate.
A seguito del referendum, tale sollecitazione fu ignorata dal Governo Prodi, in carica tra il maggio 1996 e l'ottobre 1998.
Caduto il governo Prodi, D’Alema decise di risolvere la questione e indisse una gara per l’assegnazione delle concessioni delle reti nazionali.
Nel luglio 1999 si svolse la gara, per partecipare alla quale si richiedevano requisiti importanti. Sembrò quindi che nessuno potesse essere in grado di vedersi concesse le frequenze, invece l'imprenditore Francesco di Stefano riuscì a vincere una concessione per Europa 7, la quale tuttavia non è tuttora riuscita ad ottenerne l'assegnazione effettiva, mentre Retequattro avrebbe dovuto cessare le trasmissioni analogiche, per continuare a trasmettere solo via satellite o via cavo. Di Stefano per far valere i propri diritti ricorse ad ingiunzioni, diffide, cause penali, civili, regionali, alla Commissione Europea e alla Corte di Giustizia Europea, vincendo tutti i ricorsi, tutti gli appelli e vedendosi confutare tutte le perizie. La Corte Costituzionale nel novembre 2002 stabilì inequivocabilmente che Retequattro, dal 1º gennaio 2004 sarebbe dovuta emigrare sul satellite o sul cavo.
La legge Gasparri
Nel frattempo grazie a varie proroghe governative fatte nelle passate legislature, con maggioranze sia di destra che di sinistra, Retequattro ha continuato a trasmettere, finché una legge (denominata Legge Gasparri) di riordino del Sistema Radiotelevisivo Italiano, realizzata sotto il Governo Berlusconi nel 2003, permise all'emittente di continuare a trasmettere legittimamente per via analogica.
Le critiche alla proposta di legge giunsero dai partiti di opposizione, supportati dal sindacato dei giornalisti (FNSI), e si concentrarono particolarmente sul cosiddetto Sistema Integrato delle Comunicazioni (SIC). A questo proposito le opposizioni sostennero, durante il dibattito parlamentare, che la proposta di legge, pur lasciando immutati i limiti antitrust, li rendeva, di fatto, inefficaci, allargando l'insieme su cui calcolarli. La percentuale del 20% non sarebbe infatti più stata calcolata sulle singole risorse, come i canali televisivi, ma su tutto l'insieme delle risorse di comunicazioni, televisive, radiofoniche ma anche giornalistiche e cartellonistiche.
A seguito del rinvio alle camere il governo in carica varò, nel dicembre del 2003, un decreto legge, definito dagli ambienti del centrosinistra «Salva Retequattro», con cui veniva anticipata la parte della legge Gasparri riguardo al digitale terrestre, indicando una moratoria di quattro mesi dopo la quale sarebbe stata verificata l'effettiva diffusione dei canali digitali.
Tale decreto permise al gruppo Mediaset di continuare le trasmissioni in chiaro di Rete 4, dopo che varie sentenze della Corte Costituzionale avevano stabilito che la rete avrebbe dovuto spegnere le sue frequenze analogiche a partire dal primo gennaio 2004 (dunque trasmettendo esclusivamente su altre piattaforme tecnologiche), mentre dalla stessa data Rai 3 non avrebbe potuto trasmettere pubblicità (come conseguenza della legge Maccanico). In entrambi i casi il motivo era legato al superamento del tetto del numero di canali nazionali disponibili dal Piano nazionale di assegnazione delle frequenze: la Corte Costituzionale aveva infatti argomentato che fossero 11. Inoltre la stessa Corte aveva ravvisato in tale situazione, nel 1994, una violazione dell'articolo 21 della Costituzione.
Sviluppi fino al 2012
La situazione della tv via etere italiana si può prestare a diverse interpretazioni.
RAI e Mediaset hanno, congiuntamente, più dell'80% degli ascolti televisivi (seppur in lieve calo negli ultimi anni a causa del diffondersi della TV satellitare) e, parallelamente, raccolgono (dati relativi al 2006) l'83,9% della pubblicità (di cui il 29,0% alla Rai e il 54,9% a Mediaset), seguiti da Telecom Italia Media e Sky entrambi con il 3,3%. Per quello che riguarda le offerte televisive a pagamento è Sky a detenere da sola il 91,4% degli introiti, contro il 3,8% di Mediaset e il 4,8% di tutti gli altri operatori.[13]
La relazione annuale dell'AGCOM dà un'indicazione del fatturato annuale di ciascun operatore televisivo, dalla relazione si scopre che vi sono 4 operatori principali: Rai, RTI (Mediaset), Sky e Telecom Italia Media. Siamo quindi di fronte, stando solo ai ricavi di questi soggetti, ad un oligopolio, in cui ciascuno trae la propria fonte di reddito da fonti diverse: la Rai da abbonamenti tv e pubblicità; RTI, Sky e Telecom Italia Media da pubblicità e pay tv.
Nel 2005 il Consiglio di Stato pose alla Corte di Giustizia Europea 10 questioni, tra cui una (indirettamente) su Retequattro.
La sentenza della corte, inizialmente prevista per il maggio 2007, è stata più volte rimandata; il 12 settembre 2007 le conclusioni dell'avvocatura della Corte evidenziavano che:
Il 31 gennaio 2008 la Corte ha emesso la sentenza su tale ricorso:
Il 31 maggio 2008 il Consiglio di Stato ha respinto il ricorso presentato da Europa 7 contro il Ministero delle Comunicazioni e R.T.I. (Mediaset) in cui si chiedeva la sospensione dell'autorizzazione a trasmettere per Rete 4, poiché «tardivo»; tuttavia, tale decisione non legittima la posizione del terzo canale Mediaset, che è ancora pendente vista la mancanza di concessione. Inoltre, è stato dichiarato inammissibile il ricorso di Europa 7 che chiedeva l'assegnazione delle frequenze, in quanto il Consiglio di Stato non può sostituirsi all'esecutivo. In questo senso, la Suprema magistratura amministrativa ha respinto anche un ricorso di Mediaset che chiedeva l'annullamento della sentenza del TAR del Lazio del 2004, chiedendo quindi al Ministero dello Sviluppo Economico di pronunciarsi nuovamente sulla richiesta di frequenze di Europa 7, richiedendo, in particolare, una nuova «risposta motivata» dal Governo, formulata in base alla sentenza della Corte di Giustizia della Comunità Europea del 31 gennaio.
Il 27 giugno 2008, l'Unione Europea pone nuovamente alcune domande sull'assetto tv in Italia, alcune di queste riguardano Retequattro.
Il 16 dicembre 2008 la VI sezione del Consiglio di Stato, presieduta da Giovanni Ruoppolo, si riunisce per ascoltare le parti. La richiesta economica dell'emittente è pari a 2,169 miliardi , se le frequenze saranno attribuite, ovvero 3,5 miliardi nel caso opposto. Il 21 gennaio 2009, con decisione n. 242, (riprendendo la questione già parzialmente decisa con la sentenza non definitiva del Consiglio n. 2622/08 del 31 maggio 2008), i giudici stabiliscono che Europa 7 otterrà dallo Stato un risarcimento di poco più di 1 milione di euro (meno di un millesimo di quanto richiesto) .
L'8 aprile 2010 è stata risolta definitivamente la disputa: per integrare la copertura del canale 8 in banda VHF, il Ministero ha deciso di assegnare dei canali ulteriori, mettendo dunque fine al contenzioso decennale e al ricorso al TAR.
Nell'intesa è stato inserito un vincolo per l'emittente affinché non venda le frequenze aggiuntive fino al termine ultimo dello switch-off.
Nel giugno 2012 la Corte europea dei diritti umani ha condannato lo Stato italiano per aver ostruito la concessione di frequenze televisive ad Europa 7. La Corte ha fissato l'ammontare del risarcimento in 10 milioni di euro, a fronte della richiesta dell'emittente di 2 miliardi di euro. Inoltre la Corte ha respinto l'accusa rivolta da Europa 7 nei confronti di Mediaset.
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Supplemento Enciclopedico del MONITORE NAPOLETANO
Periodico mensile registrato presso il Tribunale di Napoli Num. 45 dell' 8 giugno 2011